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La leggenda di Valcorno

Il sole indorava già i prati ed i boschi di Ciamora e Caradìes quando Piero De Monte uscì dalla borgata di Sopalù (poche povere case in legno in fondo alla forra del Padola), incalzando il suo piccolo gregge belante. Passato il vecchio ponte sul torrente pensò di dirigersi verso Costa da Rigo, ricca di acque e buona erba, ma v'erano ancora alcune grosse chiazze di neve; optò per Ciarafèn, ben soleggiata e ormai prodiga di buon pascolo. Spinse il gregge su a sinistra. Le pecore indugiavano a brucare qua e là; il fedele Nerone dal collare a punte (per una miglior difesa contro le aggressioni di qualche lupo ostinato) abbaiava sordamente e teneva il branco unito. Su e su; verso mezzogiorno giunsero al vecchio tabià; il sole era ormai alto e scaldava; si era d'aprile e la buona stagione avanzava rapidamente. Piero decise che era il momento di far sosta; depose la gerla e l'accetta che si portava dietro per un po' di legna di riserva e si sdraiò appoggiando la schiena ad un vecchio ceppo. Lì vicino un trugolo di legno, verde di muffa, raccoglieva l'acqua d'una sorgente. Prese dalla bolda (tascapane) un tozzo di pane di segale, una fetta di ricotta affumicata e cominciò a masticare lentamente. Bevve poi alla sorgente lunghi sorsi di acqua fresca e ritornò ad appoggiarsi al tronco. Poi mise in bocca un piccolo grumo di resina d'abete che aveva staccato col coltello e pian piano masticò quella cicca, così strana e gustosa. Le pecore intanto continuavano a brucare, le capre si alzavano sulle zampe posteriori per arrivare ai germogli più teneri, il cane era accucciato ai suoi piedi, da Selva proveniva un insistente canto di cuculo... Non era stanco Piero, no, la sua forte fibra era avvezza a ben altro, eppure le sue palpebre si facevano pesanti ...

 

Si lasciò pian piano andare ai ricordi; gli sembrava così strana quella quiete, quel silenzio rotto solo da qualche belato e dal canto lontano di un altro cuculo risuonante verso i boschi di forcella Dambél... E risentì le grida di guerra, il clamore orrendo delle armi, i gemiti dei morenti di alcune settimane prima quando - a fianco del condottiero Bartolomeo d'Alviano - si era battuto a Rusecco contro i Tedeschi (gli imperiali del Duca di Brauenschweig). Uno scontro feroce quello tra i Veneziani e gli Imperiali scesi a distruggere il Cadore per vendicare l'onta subita da Massimiliano d'Asburgo al quale il Senato Veneto aveva negato l'attraversamento dei territori della Serenissima. Si era ai primi giorni di marzo e una grossa nevicata aveva imbiancato il terreno. Al termine dello scontro 1.800 Imperiali, il fiore della nobiltà tirolese, giacevano sul terreno, dopo essere stati inseguiti e massacrati dai feroci "stradioti" (1), che avevano a lungo infierito, con le loro ricurve scimitarre, anche sui fuggiaschi. Piero ricordava con raccapriccio le oscene masse di cadaveri sulla neve rosseggiante di sangue, i gemiti dolorosi dei feriti, le urla dei vincitori, la grande soddisfazione del suo Capitano. Tra i cadaveri erano state rinvenute anche le spoglie di tre ragazze, forse amanti o spose che - vinte dall' amore - avevano seguito in abito guerriero i propri uomini. Dopo quella tremenda battaglia Piero, leggermente ferito, aveva fatto ritorno alla sua rustica dimora per curarsi e ritemprarsi ...

Cullato dai ricordi si lasciò andare pian piano al riposo. Lo risvegliò il latrare di Nerone che si adoperava a riordinare il gregge ormai sparso. Era l'ora del rientro. Piero portò alla bocca il corno di capra che aveva a tracolla e soffiò a lungo. L'eco, cupa, risuonò nelle valli. Il gregge, riordinato e compatto, ridiscese il costone mentre verso Zovo il sole era ormai al tramonto. Quando ripassarono il vecchio ponte l'ombra era già scesa sul borgo di Sopalù.

Quella notte (cinque settimane dopo l'orrendo macello di Rusecco), tremila Imperiali concentratisi a Sesto in gran segreto, cosicché nessuno potesse avere sentore del feroce progetto, salirono furtivamente verso il passo di Monte Croce, sgominarono il piccolo presidio posto a guardia del confine e scesero veloci e silenziosi per i pascoli di Zancurto fino a Lantrago, i piani di Moié e Campitello. Qui si divisero in tre gruppi, precipitandosi furibondi verso i villaggi di Comelico di sopra. La prima orda, ancora sul far dell'alba, era già alle prime case di Padola. Gli abitanti, sorpresi nel sonno, furono trucidati. Quanti poterono salvarsi con la fuga si nascosero nei boschi; le povere case di legno furono preda delle fiamme; gli animali perirono nelle stalle; un immenso rogo si alzò verso il cielo illuminando la notte. Poco dopo la stessa sorte toccò a Dosoledo, Sacco e Staunovo raggiunti dalla seconda ondata che proseguì nella sua corsa distruttrice fino a Candìde. La terza torma di incursori si scatenò verso Casamazzagno, bruciando, urlando, uccidendo.

Neppure gli altarioli e le chiese furono risparmiati; le antiche chiesette di Santa Maria e di S.Antonio Abate bruciarono insieme a Candide. Era tutto un immane rogo; le fiamme si levavano altissime ed il loro bagliore si scorgeva fino alla lontana Capodiponte, nel Bellunese. Il sole sorgeva appena verso Zovo quando tutto era ormai compiuto. I tre gruppi di soldataglia, ebbri di violenze e di furia devastatrice, si riunirono a Col Martin, poco discosto dalle ultime case brucianti, per decidere il da farsi. Solo le poche misere case di Sopalù, in fondo alla valle e nascoste alla vista, sfuggirono alla rabbia devastatrice di quegli assatanati.

 

Piero era uscito più presto del solito col suo gregge; passato per il vecchio ponte si diresse decisamente sotto Ciarafén: aveva scorto il giorno prima una valletta ricca d'erba fresca e pensò che le sue bestie avrebbero avuto una buona pastura. li belare del gregge e i latrati di Nerone non lo distolsero dai suoi pensieri anche quando, usciti dalla forra del Padola, iniziarono a risalire il costone boscoso e ripido. Ma appena fuori dalla macchia del bosco fu colpito da uno strano bagliore; alzò gli occhi e vide il grande rogo. Candide bruciava; ma perché la campana non suonava per chiamare a raccolta gli uomini? E che era quel clamore, quel rumore metallico? Guardando con più attenzione scorse alcuni gruppi di persone che correvano verso la valle e infine una foltissima torma di uomini in armi, riuniti a Col Martin, che vociavano, urlavano, brandendo spade, picche e balestre. Piero capì subito la tragedia avvenuta e intuì che quei malnati stavano per gettarsi su Gera, S. Nicolò e il resto del Comelico per distruggere ancora, per vendicare senza onore la sconfitta di Rusecco. Senza un attimo di indecisione pensò che occorreva pur fare qualcosa di utile; istintivamente portò alla bocca il corno e soffiò con quanto fiato aveva in gola.

Un suono cupo e grave si diffuse per la valle, prima incerto e via via più forte, più robusto, più lacerante.

 

... Per divino incanto

al patrio suon il bosco alto risponde e dagli abeti ai larici la voce

corre potente, e si disfrenan l'onde e il grave suon si sferra alto, veloce;

e il monte al monte lo rimanda e s'alza per dirupi, per massi, entro alle frane

con forza orrenda, e via per ogni balza scroscia dal tuono quel cantico immane, e l'orda esterrefatta ecco s'arresta

dal fulmineo fragor vinta, atterrita,

e il suon raddoppia e per le cime desta lunga una voce, insistente, infinita ... (J)

 

Gli Imperiali ristanno. Che è quel suono profondo e tremendo, insistente e aggressivo?

Alcuni lo ricordano ancora per la recente sanguinosa esperienza. E si diffonde una voce: "I Cadorini! I Veneziani! Arrivano, arrivano" ... Lo sgomento, il timore e il panico infine penetrano tra le loro file; qualcuno arretra, altri incalzano. Ed è la fuga, disordinata e precipitosa, tra le case brucianti, i prati calpestati poche ore prima, il passo riguadagnato verso la terra sicura.

Fuggono con il suono del corno che li insegue, li avvolge, li intontisce ...

Piero del Monte si ebbe da allora tutta la riconoscenza dei valligiani. Non passò molto tempo e i villaggi, con le loro chiese, gli altarioli, i rustici, furono ricostruiti. E i Comeliani tornarono allo loro fatiche operose di sempre.

La valletta dalla quale si era levato il suono del corno salvatore fu indicata da allora come Valle del Corno e oggi Valcorno.

 

Note

1) Piero del Monte è citato nella "Storia del Popolo Cadorino" di Mons. Giuseppe Ciani, come "valoroso guerriero" che combatté a fianco di Bartolomeo d'Alviano nel citato scontro di Rusecco del 1508. È quindi immaginaria la sua figura come proveniente dal centenaro di Comèlico Superiore, ma non inverosimile, considerato che i Cadorini avevano titolo a prestare servizio nelle milizie locali, senz'altro qualificate ed addestrate per una difesa del territorio.

A Candide, inoltre, il cognome De Monte è consolidato.

2) Gli stradioti (o stradiotti) erano soldati a cavallo armati alla leggera, assoldati dai Veneziani tra gli albanesi, bulgari, greci e dàlmati. A Rusecco furono 170; secondo il Ciani "montavano cavalli velocissimi; primi alle scorrerie, primi agli attacchi, primi al predare: in questo, niuno che li vincesse".

3) I versi sono ricavati da un'ode di Ettore Gentili, stampata nel 1880 su un numero unico di "Cadore e Tiziano". Se i versi che completano l'ode sono piuttosto di maniera, questi citati sembrano esprimere con più scorrevolezza il momento clou della leggenda.

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La leggenda di Valcorno è stata oggetto di un bel racconto dell'omonimo titolo a cura del mO Oscar Pietropoti, edita nel 1956 da "La Scuola editrice di Brescia". Il volumetto di un centinaio di pagine, illustrato da Carlo Galleni, rievoca le vicende del 1508. Fu diffuso allora in tutte le biblioteche scolastiche del bellunese. Una copia è reperibile presso la Biblioteca Storica di Vigo di Cadore.

La litografia del pittore Vico Calabrò che illustra la leggenda fu distribuita nell'autunno del 1974 dal CAI Comèlico in occasione del Convegno Triveneto del C.A.!. tenuto a Casamazzagno. L'episodio è ravvivato dall' artista con la sua consueta vena ironica e con l'inserimento di guizzi moderni.

da LDB Natale 1998

Litografia Vico Calabro


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